Pasquale Taraffo e la sua “harp guitar” alla conquista del mondo
La
personalità, il contesto, i successi internazionali, il declino:
storia di un grande chitarrista dimenticato
Capitolo 5:
by Giorgio De Martino
translation by Silvia Minas
edited by Gregg Miner
“Sul
Re Vittorio verso l’America del Sud, 1925”. L’album di
famiglia ritrae un uomo piccolo, con la corporatura d’un ragazzino
contrapposta ai segni del tempo che rendono drammaticamente espressivi i
tratti del viso (tratti in sé, paradossalmente, quasi puerili). Ha
trentotto anni, porta il cappello che copre un’estesa stempiatura, ha
l’aria di uno che sorride solo quando strettamente necessario. In
bella mostra, un salvagente col nome del piroscafo, e sotto –
distanziata da due stelle – la città di provenienza, Genova. Da Genova (dalla sua Genova), come decine di migliaia di emigranti, questo piccolo uomo taciturno è partito, alla volta di Buenos Aires, senza una raccomandazione, senza un indirizzo. Si chiama Pasquale Taraffo, è il “Paganini della chitarra” ma non si direbbe. Cerca fortuna oltreoceano. |
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A
differenza del suo concittadino violinista, Taraffo la musica, quella
scritta, mica la conosce. Ha tentato più volte, ci hanno provato i suoi
amici e colleghi a fargliela apprendere, dal compositore Attilio
Margutti al mandolinista Nino Catania. Nulla da fare, la carta
pentagrammata non è per lui. Taraffo ascolta, e la musica passa
direttamente dalla mente armonica alle mani, alle corde della sua
chitarra. Può essere una Polka, ma anche il Coro dalla “Sonnambula”:
lui introietta e poi reinventa, non ripropone pedissequamente ma concrea,
attraverso licenze armoniche, attraverso soluzioni d’uso, per poi
restituire magari un’intera orchestra nelle dieci dita. E quando
compone brani originali, se li scrive nella memoria, poi li esegue di
fronte ad un amico musicista, uno che sia in grado di trasformarli in
spartiti per chitarra a sei corde. Sangue
genovese, un metro e cinquantaquattro, meridionale del nord,
scomodissimo nel masticare le lingue (italiano compreso), quest’uomo
tutto d’un pezzo, diffidente per natura e pervicacemente riconoscente
con chi l’aiuta (chiamerà i propri figli – ed anche due tra le sue
più note composizioni – col nome dei suoi benefattori), quest’uomo
che si esprime in dialetto anche all’estero, parla viceversa la lingua
del mondo quando è abbarbicato sulla propria chitarra a quattordici
corde, “inventata da lui medesimo” (ma non è vero, è un’enfasi
veniale ad uso delle Americhe) e piazzata su di un ingegnoso piedistallo
lievemente basculante. Nella fotografia la sua figura emana una
singolare rude signorilità, che ben si appaia all’impiantito logoro
del piroscafo a due alberi “Re Vittorio”: stazza minuta (ancor più
pensando alla rotta) immortalata in quel 1925, a tre anni dalla sua
definitiva demolizione. Grottesco
e poetico insieme, il destino di Pasquale Taraffo, genio selvatico,
genio raffinato, cresciuto nell’anomalia. Senza strumenti culturali
regolamentati, senza una scuola se non quella familiare assorbita dal
padre Giuseppe (di mestiere fabbro, ma con la passione per la chitarra),
prima enfant prodige che
riempie i locali pubblici della città di fronte a tavolini di marmo ed
alla platea degli amici di umili professioni, poi professionista
militante della chitarra, poi fenomeno internazionale (che a Barcellona,
ad esempio, riempie il medesimo locale per quaranta serate consecutive),
poi stella del gran varietà, vedette che sbalordisce il mondo (anche quello paludato della musica
colta). Pasquale
Taraffo attraverserà l’oceano più volte, per suonare sia nel sud che
nel nord dell’America. Lo farà con l’amaro in bocca congenito
all’emigrante, nonostante i trionfi, gli incontri importanti, le
recensioni esaltanti, perché una moglie e due figli lo attendono a
casa, ed è qui che vorrebbe essere sempre. Il
suo funambolismo d’interprete virtuoso sulla scena ha un contrappasso
non solo nell’aspetto ma anche nel carattere. Ispido nei rapporti ed
assai poco diplomatico. Dunque perdente, quando si tratta di negoziare
gli ingaggi, di saper mediare, di riuscire o meno a far soldi. Oltrepassato il 1929, solo in parte in fortuita coincidenza con la Grande Depressione, la vita di Pasquale Taraffo lentamente reclinerà. Otto anni d’una lenta ma inesorabile parabola discendente. Dopo aver condiviso provvisoriamente le stanze del successo e probabilmente il profumo dei soldi, l’artista sembra non reggerne il peso e fors’anche i compromessi. Da quelle stanze ne uscirà presto, per tornare sulle navi. Non solo come concertista in transito bensì come musicista stanziale, attrazione di bordo, membro dell’orchestra guidata dall’argentino Edoardo Bianco, insieme al cantante concittadino Mario Cappello. Trascorrerà gli ultimi anni di vita di frequente lontano da casa, sempre più stanco e verosimilmente più conscio di quanto il proprio portentoso talento sia stato dilapidato. Morirà nel 1937 a Buenos Aires, senza aver fatto davvero fortuna, senza aver gettato basi sufficientemente solide per essere ricordato. La sua chitarra tornerà come una bara vuota, perché la sua salma non conterà su un biglietto di ritorno. E si perderà in Argentina. |
Pasquale Taraffo non studia. “O Rêua” (epiteto risultante da una
fascinazione d’ordine quasi circense, per una tecnica digitale che
esteriormente, nel movimento della mano destra sulle corde, ricorda
quello circolare della ruota) quando è all’estero chissà, ma quando
è nella sua città, testimonianze raccontano come non concepisca una
pratica chitarristica intesa come esercizio. La sua arte innata, di
portata mozartiana, fa sì che pare non riesca a comprendere il motivo
per cui debba suonare “da solo”. Suona volentieri, ma se ha gente di
fronte che lo ascolta, che sia in teatro o in un locale pubblico. Dunque
dorme fino a mezzogiorno, in ossequio al ritmo biologico d’artista,
per poi suonare prima in un matinée poi in uno spettacolo serale, sempre imbracciando la sua
chitarra a quattordici corde realizzata dall’amico liutaio Settimio
Gazzo. Nonostante questa dimensione esistenziale routiniera, di artigianato concertistico, Pasquale Taraffo ha avuto il coraggio e l’ingegno per uscire dall’orizzonte della provincia. Prima in Italia, poi in Europa (a poco più di vent’anni viene acclamato in Spagna, dove vene definito «El Dios de la Guitarra»), poi nelle Americhe (a partire da quel tragitto sul “Re Vittorio”), si è fatto conoscere ed apprezzare al punto da assurgere a rivale, e in un certo senso a contraltare, di Andrés Segovia. Quest’ultimo, più giovane di cinque anni, essendo nato nel 1893, benestante, dalla Spagna aveva conquistato gli Stati Uniti, grazie ad una tournée trionfale nel 1928, rilanciando la chitarra classica presto a livello planetario. |
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Sono paralleli che, ad una lettura superficiale del personaggio Taraffo,
fanno fatica a convincere. Eppure il piccolo uomo taciturno che sapeva
mettere 120 professori d’orchestra e magari un coro dentro le corde
d’una chitarra, è figlio di una tradizione secolare e testimone di
un’arte popolare in grado di non arrossire, per esempio di fronte alle
trascrizioni bachiane di Segovia. Il
fenomeno Taraffo non nasce dal nulla. Ammesso che il suo sia un genio
istintivo germinato “nella strada”, vale la pena ripensare e
ricollocare oggi il concetto stesso di arte quotidiana, di arte popolare.
La patria di Taraffo (e di Paganini) evidentemente offre, per secoli,
l’humus tecnico ed interpretativo adatto a simili germogli. Paganini
nasce come suonatore di strumento a pizzico, trasferendone poi alcune
istruzioni tecniche nodali sulle quattro corde del violino. Ed anche
Taraffo, a suo modo, assorbendo la stratificazione secolare propria di
questa città marinara, può essere letto come epigono d’una storia
che ci porta indietro nel tempo: al ‘500 di Simone Molinaro ed ancora
più indietro, alla Genova medievale. Taraffo compone musica ballabile, ha necessità di intrattenere. Le sue
pagine hanno una priorità d’uso, hanno la forza, la concretezza del
prodotto di consumo: Marce, Polche, Mazurche. E poi, l’Opera. Già,
perché la lirica è (era) arte sommamente popolare, e gli stessi operai
che frequentavano i locali di ritrovo ed i molti teatri di gran varietà,
plaudendo al “numero” di Taraffo, conoscevano a memoria opere intere,
e tifavano per la voce di Beniamino Gigli piuttosto che per quella di
Tito Schipa o di Giacomo Lauri Volpi. Il melodramma ottocentesco in
Italia è esperienza fortissimamente popolare. Laddove, oltralpe, si
sviluppa l’era del grande romanzo (per un pubblico che, grazie anche
ai precetti della chiesa evangelica, deve saper leggere, dai sacri testi
in giù), nella penisola patria di Verdi viceversa fiorisce il
melodramma, anche in ragione d’una alfabetizzazione scoraggiata (quando
non addirittura osteggiata) dal cattolicesimo. Nell’affiancare l’Intermezzo di Cavalleria Rusticana o il Coro della
Sonnambula ad un Tango o ad una Serenata, Pasquale Taraffo ci dota oggi
d’una lezione salutare, riposizionando il melodramma nell’alveo
originario di una tradizione popolare ed accessibile. Segovia trascrive
Bach, Taraffo trascrive Bizet, Bellini, Mascagni… Segovia, forte dei
suoi studi violoncellistici pregressi, ha un approccio colto e molto
rispettoso della fonte, mentre Taraffo riarmonizza, aggiunge farina del
suo sacco, filtra il brano attraverso l’emozione, media attraverso una
spiccata sensitività, per poi riconsegnarlo quale specchio della
propria percezione, aggirando il passaggio su carta pentagrammata,
eludendo pregi e difetti di un’analisi sulla notazione. La storia della musica ci racconta un Segovia la cui autorità sugli
altri chitarristi è schiacciante, almeno fino alla fine degli anni
’50. Nella figura di Segovia si identifica colui che, primo ed unico a
suo tempo, ha cercato di restituire allo strumento quelle velleità
solistiche cedute a partire dal primo Ottocento. Ma basta ricordare la
tipologia dello strumento di Taraffo, “truccato” per rinforzare i
bassi ed ampliarne la sonorità in funzione delle grandi platee… Basta
aprire un giornale statunitense della fine degli anni ’20, per mettere
in discussione l’assioma. E verificare come il paragone
Segovia-Taraffo non sia un’illazione campanilistica. Sul quotidiano
newyorkese “Il Progresso Italo-Americano”, il 25 dicembre 1928,
nell’ambito della recensione del concerto (di cui parleremo più
avanti) tenuto dal chitarrista genovese al teatro Gallo di New York, si
legge «Taraffo è meraviglioso nei suoi pizzicati, nei suoi trilli, nei suoi
arpeggi come nel canto spiegato, come nei robusti bassi. Spesso si ha la
illusione precisa che sian più strumenti a suonare insieme. Segovia è,
forse, più levigato, più elegante. Taraffo è più robusto, più
espressivo, più efficace». In quei giorni, nella programmazione
concertistica della Grande Mela, tra gli altri
figurava un adolescente Yehudi Menuhin, violinista solista in due
concerti con la Philarmonic Symphony Society alla Carnegie Hall, ed
anche Andrés Segovia, giunto per tenere un recital alla Town Hall (dove
Taraffo suonerà due settimane dopo, dedicando un brano di propria
composizione al presidente Herbert Hoover). Ignoriamo volutamente narrazioni leggendarie, seppure plausibili, che
parlano di incontri/scontri de
visu fra Segovia e Taraffo, che sia nel corso d’una tournée di
quest’ultimo in Spagna, oppure in America, o viceversa in una fugace
apparizione genovese dell’artista iberico. Ma un raffronto è lecito.
Anche se l’uno è un mito “istituzionalizzato” della chitarra,
l’altro, ai più (ed a torto), un nome quasi sconosciuto. A
controprova, citiamo “The new International Year Book – A Compendium Of The World’s
Progress For The Year 1928”. Si
tratta del prestigioso annuario a cura di Herbert Treadwell Wade, edito
da “Dodd, Mead and Company”. Un tomo voluminoso – oltre 800 pagine
– che fotografa lo stato dell’arte delle discipline sia scientifiche
che umanistiche nell’arco del 1928. Nella sezione dedicata alla musica,
ed in particolare agli artisti, a pagina 477-478, il testo fa
riferimento prima al debutto americano del pianista Vladimir Horowitz (solista
nel Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Čajkovskij, sotto la
bacchetta di Sir Thomas Beecham), poi a due eclatanti enfant prodige del
violino che hanno destato stupore a livello internazionale,
l’adolescente Yehudi Menuhin e Ruggiero Ricci, che all’epoca aveva
otto anni. Introduce infine una «inusuale
attenzione» prestata nel corso dell’anno ad uno strumento che in
precedenza non frequentava i palcoscenici delle sale da concerto, la
chitarra. Un’attenzione dovuta alle importanti esecuzioni di due
artisti. Uno dei quali è Andrés Segovia, l’altro, Pasquale Taraffo: «ancora
più sorprendente fu l’esibizione dell’italiano Pasquale Taraffo
(New York, 23 dicembre) che suonò uno strumento sensibilmente
migliorato grazie al proprio ingegno. Infatti aumentando le dimensioni
della chitarra ordinaria ed aggiungendo diverse corde, ha ottenuto non
solo una gamma di suoni più ampia, in particolare nel registro
inferiore, ma anche un tono più dolce e maggior volume. Uno strumento
che (Taraffo) ha gestito con grande virtuosismo». Così recita, il testo originale: «Unusual attention was attracted by the remarkable performances of two artists who introduce an instrument entirely unknown in serious concerts, the guitar. Andrés Segovia, a Spaniard, scored an instantaneous success at his début in New York (January 8) by his masterly rendition not only of national folk songs and dances but also by his arrangements of familiar pieces of the classic masters. His success in other cities was equally emphatic. Still more surprising was the exhibition given by the Italian Pasquale Taraffo (New York, December 23), who played an instrument greatly improved by his ingenuity. By increasing the dimensions of the ordinary guitar and adding several strings, he obtained not only a wider range, especially in the lower register, but also a mellower tone and more volume. This instrument he handled with real virtuosity». |
La patria di Pasquale Taraffo raramente è generosa coi propri figli
illustri. Li ricorda in modo tutto suo, secondo percorsi atipici e
talvolta inspiegabili. È la stessa città, vale ricordarlo, che ha
disinvoltamente distrutto – nei primi anni ’70 – la casa natale di
Niccolò Paganini. Lungo il secolo scorso lentamente il nome di “O Rêua”
ha appannato la sua vis evocativa anche nella nativa Genova, fino quasi
a scomparire. Eppure, ancora a metà degli anni ’50 sulla stampa
cittadina si leggono frasi che tornano ai paragoni di cui sopra: «gli
spagnoli hanno fatto di Pasquale Taraffo un loro figlio prediletto
(…), il nome del chitarrista genovese vien pronunciato con reverenza pari a
quella di Tarrega e di Segovia». Poi però, per quasi mezzo secolo,
rare sono le occasioni in cui Genova si è ricordata di Taraffo. Per il
principio di una renaissance
bisognerà attendere la seconda metà degli anni ’90, con l’avvio di
una disamina strutturata (e della divulgazione) dell’arte taraffiana,
dai dischi alla documentazione cartacea, ad opera di studiosi e
musicisti quali Franco Ghisalberti, Enrico De Filippi, Beppe Gambetta,
Fabrizio Giudice. L’8 luglio 1954 la sua chitarra a quattordici corde viene consegnata
ufficialmente al sindaco di Genova, dalla figlia dell’artista. Sarà
il conservatorio musicale cittadino ad accoglierla, luogo dove tuttora
è custodita. Seguono, ad anni di distanza l’uno dall’altro, sparuti
omaggi celebrativi, fino ai già citati riconoscimenti dell’ultimo
quindicennio. Mentre, curiosamente, è perfino corposa una produzione poetica, d’area
dialettale, dedicata a “o Rêua”. Il poeta Piero Bozzo (1910 –
1992) firma le strofe di una canzone genovese titolata «Quande
sûnnava o Rêua» su musica di Natale Romano, dove evoca la «voxe
de Zena» paragonando Taraffo a Paganini, rammaricandosi per il
mancato ritorno in patria delle spoglie mortali dell’artista. Sette
quartine (di più elaborato pregio poetico) vengono poi redatte al
principio degli anni ’80 da Carlo Palladino (1910 – 1995), poeta per
diletto ed ottimo musicista, primo chitarrista a ricoprire la cattedra
di chitarra classica presso il conservatorio “N. Paganini” di Genova. |
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Taraffo è un artista moderno. Caratterialmente certo non è un grande
comunicatore, ma allo stato dei fatti risulta un brillante utilizzatore
dei mezzi di comunicazione del tempo. È probabile sia il chitarrista
italiano che abbia inciso più dischi, nella seconda metà degli anni
’20. Di produzione delle principali marche inglesi, tedesche ed
americane, la discografia di Taraffo non sembra seguire una rigorosa
progettualità di documentazione sonora, quanto piuttosto rispondere
all’esigenza pratica di commercio, spesso da parte dello stesso
musicista. Un uso dunque artigianale e pragmatico del mezzo, che si
tramuta in fonte economica ed anche pubblicitaria. Decine sono i dischi
a 78 giri incisi da Taraffo, alcuni dei quali ripropongono sotto marchi
differenti la medesima esecuzione. Per una disamina precisa, anche dal
punto di vista cronologico, non aiuta il fatto che l’artista,
essendosi rifiutato di sostenere l’esame d’ammissione, non sia mai
stato iscritto alla Società Italiana degli Autori ed Editori. Sono
stati rintracciati suoi dischi siglati Homocord, Columbia, Odeon,
Polydor… Un modo per entrare nelle case, per reiterare lo stupore ed
amplificare la fama. Non solo: Taraffo conosce anche la forza dello schermo, entra per un momento, con la sua chitarra a quattordici corde, nella scia luminosa della nuova arte del XX secolo. Non sappiamo quanti video abbia girato, conosciamo però una preziosissima clip dove l’artista genovese esegue “Stefania”, celebre brano popolare di sua composizione. Il set è a New York, la pellicola risale al 19 dicembre 1928 (meno di una settimana prima del suo trionfale concerto al teatro Gallo, di cui parleremo più avanti). Il cortometraggio, della durata di pochi minuti, era presumibilmente proiettato nei cinema, come consuetudine al tempo, quale bonus prima o dopo una più corposa proposta filmica. Taraffo frequenta anche il mezzo radiofonico: abbiamo notizie di trasmissioni presso le emittenti argentine “Radio Cultura” e “Radio Fenix”, alle quali partecipa insieme al conterraneo Mario Cappello. |
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Ad applaudirlo c’erano tutti. L’antivigilia di Natale del 1928, in
locandina, al teatro Gallo nella 54th Street di New York, svetta il nome
di Pasquale Taraffo. Saranno le ultime festività serene, prima che il
“martedì nero” dell’ottobre successivo getti nell’indigenza
un’ampia porzione di popolazione, non solo statunitense. Ed anche il
“Gallo Opera House” ne subirà le conseguenze, dismesso nel 1930, più
volte riciclato tra prosa e musica, ed infine tramutato nella celebre
discoteca “Studio 54”. Torniamo alla platea di quella domenica 23 dicembre, in un teatro distante
pochi isolati dal “Met”. Impressionante è la densità di personalità
del mondo artistico legato alla musica colta che hanno varcato la soglia
del “Gallo” e che siedono per applaudire Taraffo. Una parata di stelle
che va dai cantanti Beniamino Gigli, Giacomo Lauri Volpi, Titta Ruffo,
Lucrezia Bori, Frederick Jagel, ai direttori d’orchestra Tullio Serafin,
Vincenzo Bellezza, Giuseppe Maria Bamboschek, da Giulio Setti, per quasi
trent’anni direttore del coro del “Met”, al violinista Vasa Prihoda. Un parterre de rois che resta
incantato, come testimoniano le fotografie da alcuni di loro dedicate
all’artista genovese, dopo il concerto. Ad esempio Prihoda lo definisce
«grande chitarrista» e Lauri
Volpi rincara definendo Taraffo come colui «che
ha innalzato alla più squisita dignità di d’arte uno strumento così
tipicamente italiano». La stampa copre meticolosamente l’avvenimento, riservando al ben
congegnato e ben promosso debutto del chitarrista genovese un vero e
proprio trionfo mediatico. Nelle locandine dei concerti a venire leggeremo
slogan quali “il celebre concertista di chitarra” oppure “world’s
greatest guitarist”. Siamo di fronte all’apice della carriera di
Pasquale Taraffo, all’approdo professionale più eclatante
dell’artista genovese, che infatti fa il pieno di favorevolissime
recensioni. |
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Il “New York Times”: «Con i suoi
trilli eseguiti con la mano destra, le scale e gli arpeggi con la
sinistra esaltati dai bassi pizzicati da grande virtuoso sulle otto
corde aggiunte rispetto alle sei delle chitarre classiche, ha suonato la
sua particolare chitarra ad arpa facendosi applaudire per la prima volta
nell’America del Nord dal pubblico musicale entusiasta (…).
L’umile musicista faceva i suoi inchini quasi nascosto
dall’imponente mole dell’istrumento di sua invenzione, mezza arpa e
mezza chitarra, che posto su di un alto piedestallo sembrava produrre il
suono di tutta un’orchestra di mandolini retta dalla straordinaria
musicalità dell’esecutore». Il “New York Sun”: «Ha sfoggiato
grandissima agilità di esecuzione restituendo brani che spaziavano da
una serenata di Albeniz all’ouverture della “Norma” fino alla
“Stars and Stripes” di Sousa. Pubblico entusiasta e applausi a non
finire». Sulla stessa linea, gli altri maggiori attori della scena mediatica del
tempo, dall’“Herald Tribune” al “New York Evening Post” ed al
“Morning Telegraph”. Vale la pena soffermarsi su questo picco di attenzione da parte dei media newyorkesi, di cui Pasquale Taraffo è oggetto a cavallo tra 1928 e 1929. Una copertura mediatica che oggi farebbe invidia a qualunque star internazionale. Prima di approfondire i contenuti di alcune delle grandi testate sopra citate, ci concentriamo sull’articolo in lingua italiana, che in data 25 dicembre 1928, sulle pagine de “Il Progresso Italo-Americano”, riferisce sul concerto. Il recensore propone riflessioni interessanti, all’interno di un pezzo il cui contenuto esprime incontrovertibilmente come, con l’esibizione di Taraffo, sia “nata una stella”. «Siamo
andati, domenica, al Teatro Gallo con una certa diffidenza. Non
conoscevamo Taraffo: e non ci lasciamo convincere aprioristicamente
dalla “reclame” che procede ogni “lanciamento” di nuovi virtuosi
nel gran mondo musicale e affaristico americano».
Così leggiamo, al principio della recensione… Quasi una strategia
letteraria, volta a valorizzare maggiormente il prosieguo: «Siamo
usciti dal concerto del chitarrista genovese lietissimi di aver fatto la
conoscenza di un veramente eccezionale artista». Dopo una serie di
annotazioni sui tre strumenti a 14 corde che Taraffo ha portato
dall’Italia, e su come il cambio climatico abbia implicato alcuni
problemi pratici all’artista, parla d’un pubblico «subito
incatenato dalla meravigliosa tecnica del concertista e dai sorprendenti
effetti che egli traeva dalla sua chitarra. Sorprendenti perché il
chitarrista con una sola mano deve provvedere al canto e
all’accompagnamento della musica che suona. E molte volte anche ai non
profani riesce difficile spiegarsi come con una mano il chitarrista
eseguisca con tanta limpidezza e con tanta grazia espressiva un canto
melodico arricchendolo di un accompagnamento ricco, colorito,
armonicamente perfetto». Il quotidiano newyorkese in lingua italiana procede poi con un parallelo
Taraffo-Segovia, di cui già abbiamo relazionato. Dopodiché, ancora una
nota sull’apprezzamento del pubblico («Il
sucesso è stato caloroso, spontaneo. È piaciuta molto la parte
consacrata alla musica classica») e le conclusioni: «Taraffo,
già popolare in Italia e in Spagna, sarà presto popolarissimo in
America. L’Italia musicale si è arricchita di un virtuoso di più:
virtuoso di gran classe. Il suo primo concerto è stato una lieta
rivelazione. E fra coloro che più calorosamente applaudivano abbiamo
notato domenica molti illustri artisti, fra i quali Gigli, Lauri Volpi,
De Luca, (…) Tullio Serafin, Giuseppe Maria Bamboschek, Giulio Setti,
Titta Ruffo, (…)». Il recensore si firma con la sigla “F”. Al tempo, sottoscrivere un pezzo
attraverso un acronimo non rappresentava affatto un’indicazione di
scarsa importanza dell’argomento trattato o di poca autorevolezza di
colui che l’aveva redatto. Viceversa, era in molti casi un vezzo del
recensore, che in tal modo quasi sottolineava la propria riconoscibilità
ed attendibilità agli occhi del lettore. In questo caso la sigla
sottintende la penna di Italo Falbo (1876 – 1946), direttore de “Il
Progresso Italo-Americano”, una figura straordinariamente eclettica
della cultura italiana del primo ‘900. Dopo gli studi presso
l’Accademia di Santa Cecilia, Italo Falbo alternò l’attività di
compositore, critico musicale e giornalista (fra l’altro fondò la
rivista “Ariel” insieme a Luigi Pirandello), all’impegno politico
(fu deputato del Parlamento italiano al principio degli anni ’20) ed
alla passione scientifica (si laureò in medicina e scienze naturali). Sulla recensione apparsa nelle pagine del “New York Times” del 24
dicembre, oltre alle note tecniche che abbiamo riportato, il recensore
entra in modo dettagliato nel merito del programma: «Si
è esibito in arie di danza argentine e musiche tipiche della tradizione
del suo paese, l’Italia, tra cui uno dei motivi più applauditi è
stato l’adattamento dell’ouverture della “Norma” di Bellini.
Taraffo ha dato la stura ai suoi pezzi ad effetto sin dall’inizio con
la “Serenata Capricciosa” scritta per lui da Margutti, seguita dalla
“Fantasia” di Vinas ad imitazione della tecnica pianistica. Indi è
passato a brani di musica classica di consolidato valore lirico come una
Serenata di Albeniz, il famoso Minuetto di Boccherini, il “Momento
Musicale” di Schubert, e i “Pizzicati Polka” di Delibes. È
passato poi all’Ouverture dell’opera di Rossini “La Gazza Ladra”,
un po’ caduta nel dimenticatoio, alle arie da “La Gheisha”, e la
“Star and Stripes” di Sousa». A pagina 11 dell’edizione del 24 dicembre 1928 del “The World”, il
recensore parla di «virtuosismo
non apparente» sullo strumento che viene fantasiosamente definito
«banjo-guitar». Sottolinea inoltre come Taraffo
«has developed a delicacy and
balance in his performance upon this instrument». Il “New York Evening Post”, il medesimo giorno, pubblica un pezzo (siglato
E. B.) più “raccontato”. Il testo principia con un’immagine di
grande fascino: il palcoscenico vuoto, la chitarra issata sul
piedistallo, pronta per una sfida all’altezza esclusiva d’un grande
virtuoso: «Alone
guitar on a pedestal in the center of a large stage bears something of
an air of impertinence, which perhaps only a great virtuoso could
overcome. Pasquale Taraffo, in his guitar recital at the Gallo Theatre
on Sunday Afternoon, fell short of this greatness, but played with
admirable dexterity and ingenuity and good musicianship. He audience,
which was of fair size, grew very enthusiastic over such ambitious
numbers as the overture of “Norma” and a piano imitation of
Vinas’s “Fantasia Originale” (…)». Interessante, il rilievo proposto da “The New York Sun”, sempre
nell’edizione della vigilia di Natale 1928, laddove parla della
chitarra: «(Taraffo) ha
utilizzato uno speciale strumento a quattordici corde inventato da lui
stesso, che assomiglia ad una chitarra classica dotata di un braccio
atto a reggere le corde supplementari. Lo strumento ricorda vagamente
l’arpa-liuto creata verso la fine del diciottesimo secolo da Edward
Light nell’intento di sostituire la chitarra». Estremamente
positivo, il giudizio critico: «Taraffo ha sfoggiato grandissima agilità di esecuzione suonando brani
che spaziavano da una Serenata di Albeniz all’Ouverture della
“Norma” fino alla “Stars and Stripes” di Sousa. Pubblico entusiasta e applausi
a non finire». Infine, uno sguardo al “New York Herald Tribune”, che ci informa su uno dei molti bis proposti: «the guitarist was applauded with unusual warmth, and repeated his arrangement of the ouverture to “Norma” a number effectively illustrating his fleetness and deftness of fingers. Other encores also were provided». E sul cuore del concerto, il recensore (che si firma F.D.P.) propone con onestà il proprio interrogativo sulla capacità di sostenere, la chitarra, un intero concerto, rimarcando come Taraffo, sullo strumento a quattordici corde di sua invenzione, «he proved a past master, with notable digital skill, while in a tone providing nothing particularly unusual in quality. He obtained quite a little variety of timbre but whether the limitations of the instrument allow sufficient variety to avoid monotony throughout a complete recital is a question». |
Più ancora dell’accoglienza dei giornali, stupisce la qualità della
platea del teatro Gallo. Ai giorni nostri una sequenza di ospiti di
simile respiro sarebbe probabilmente impossibile da inanellare, neppure
in occasione d’un evento in mondovisione. Ma il gotha musicale, alla
fine degli anni ’20, ruota di frequente intorno alla Grande Mela. E
molti tra gli italiani che hanno fatto la storia dell’interpretazione,
cantano o suonano o dirigono a New York. Partiamo dalle voci: il tenore Benimino Gigli ha all’epoca trentotto anni,
e da otto calca il palcoscenico del “Metropolitan” e risiede
stabilmente a New York. Il suo timbro è tra i più belli di sempre, la
sua fama è già consolidata, anche se è solo a partire dagli anni
’30 che esploderà il successo planetario, grazie anche alla ricca
discografia ed anche alla sua attività di cantante/attore, in una
ventina di pellicole. Un’altra perla dell’olimpo tenorile siede fianco a fianco, è Giacomo
Lauri Volpi, ha trentasei anni ed è anch’egli una stella del
“Met”. Due anni prima ha trionfato interpretando la prima esecuzione
americana della “Turandot” di Puccini. Dopo un principio di carriera
come tenore di grazia, è su consiglio di Pietro Mascagni (che lo
predilige come “Turiddu” nella sua “Cavalleria Rusticana”) che
inizia a frequentare un repertorio vocalmente spinto, da “Manon
Lescaut” a “Il Trovatore”. Superati da poco i cinquant’anni, in platea siede il più grande baritono
di tutti i tempi, Titta Ruffo. È già una leggenda vivente. La sua
interpretazione di “Rigoletto” è universalmente considerata
ineguagliabile. Ha preferito lasciare l’Italia anche perché convinto
antifascista (fra l’altro, cognato del celebre deputato Giacomo
Matteotti, assassinato dal regime nel 1924). Titta Ruffo ascolta Taraffo
in compagnia del suo collega Giuseppe De Luca, altro superbo baritono
con trent’anni di carriera alle spalle. Per comprenderne la portata
dell’artista, basti ricordare che è lui ad aver plasmato due
personaggi chiave della produzione pucciniana: primo “Sharpless” al
debutto di “Madama Butterfly” alla Scala di Milano nel 1904, primo
“Gianni Schicchi” nell’opera omonima, la cui prima assoluta
avviene proprio al “Met”, nel 1918. Ad applaudire Taraffo, a stupirsi per la sua “harp guitar” c’è anche
il soprano Lucrezia Bori, spagnola di nascita ma italiana per studi ed
inizio di carriera. Accanto a Caruso sui palcoscenici degli anni ’10,
prima interprete italiana (nel ruolo di Octavian”) nel Rosenkavalier
di Strauss, la Bori a New York (dove morirà nel 1960) è di casa fin
dal 1912, quando debutta trionfalmente nella “Manon Lescaut” di
Puccini. Le siede vicino un collega americano, il tenore Frederick Jagel. Nato a
Brooklyn, i primi passi li ha mossi in Italia, facendosi chiamare
Federico Jaghelli. Al tempo del concerto di Taraffo è trentenne: sono
giusto trascorsi due anni da quando ha inaugurato la propria carriera al
Metropolitan come “Radames” in “Aida”. Seguiranno ventitré anni
di sodalizio col teatro newyorkese, nei quali Jagel interpreterà
trentaquattro ruoli, per un totale di quasi 250 recite. Quanto ai direttori d’orchestra presenti, svetta il nome di Tullio Serafin.
Classe 1878, è la bacchetta che in oltre sessant’anni di carriera è
riuscita a dirigere da Enrico Caruso a Luciano Pavarotti. Serafin,
pupillo di Toscanini, ha guidato le prime rappresentazioni di opere di
Benjamin Britten, Alban Berg, Paul Dukas. È lui ad aver scoperto Maria
Callas, anche se più volte ha affermato che i più grandi fuoriclasse
del canto restavano Rosa Ponselle, Enrico Caruso e Titta Ruffo (che in
quell’antivigilia di Natale 1928 gli siede accanto). Uno strepitoso compagno di lavoro di Serafin, anch’egli in sala, è
Vincenzo Bellezza. Di dieci anni più giovane, è reduce dalla direzione
al “Colón” di Buenos Aires. A partire dal 1926 sta mantenendo un
rapporto privilegiato con il “Covent
Garden”, teatro dove dirige tra l’altro la recita di addio della
mitica Nellie Melba ne “La Bohème”. La dimensione della sua
fama nel secondo ‘900 forse non renderà merito alla grandezza del
personaggio, penalizzato da una scarsa attività discografica. Al concerto di Taraffo c’è anche Giuseppe Maria Bamboschek, artista
straordinariamente eclettico che qualche anno prima aveva debuttato come
direttore d’orchestra e pianista solista con la Berlin Philarmonic
Orchestra. Tutti i più celebri cantanti dell’epoca d’oro (quella di
Enrico Caruso, di Rosa Ponselle, di Giovanni Martinelli…) sono passati
dalla sua bacchetta. Di voci se ne intende anche Giulio Setti, uno degli “anziani”,
anch’egli ad applaudire il chitarrista genovese. Classe 1869, quasi
quarantenne si trasferisce negli Stati Uniti dove diventa maestro del
coro del “Met”. Un posto di lavoro che manterrà per ventisette anni,
prima di ritirarsi e di tornare in Italia. È assai più lunga, la lista di personaggi importanti, musicisti e non,
italiani e non, che applaudono Taraffo. Citiamo ancora un artista,
presente in sala quel 23 dicembre. È il violinista ceco Vasa Prihoda,
tra i più grandi interpreti paganiniani di tutti i tempi, artista che
all’epoca ha ventotto anni (ed è già un divo). Artista controverso,
il suo violinismo ha ammiratori entusiasti ed anche detrattori: così
c’è chi lo acclama e chi gli preferisce il quasi coetaneo Jascha
Heifetz. Dieci anni prima del concerto al “Gallo” Prihoda tenta la
fortuna a Milano, nella speranza di sfondare in Italia come virtuoso del
violino. Costretto, per vivere, a suonare al “Caffè Grand’Italia”,
viene inteso casualmente da Arturo Toscanini, il quale lo aiuterà nel
decollo concertistico. Attività che presto darà al violinista fama e
ricchezza. Come già accennato, al termine del concerto al teatro Gallo,
Prihoda saluterà di persona Pasquale Taraffo, donandogli un proprio
ritratto con dedica, dove definirà il concittadino di Paganini un
“grande chitarrista”. |
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Teatro Civico di Tortona Nel 1830 l'Amministrazione Comunale di Tortona affida al concittadino Pietro Pernigotti l'incarico di realizzare il progetto di un teatro, da erigere su una porzione dello spazio precedentemente coperto dal Convento della SS. Annunziata. Nonostante un’epidemia di colera rallenti, nel 1836, l’opera di costruzione, il teatro viene inaugurato il 2 maggio 1838 con la Norma di Bellini. La struttura è in stile neoclassico, la sala, delineata a ferro di cavallo (come di consueto, nell’800), contiene diciassette palchi su tre ordini, più i due di proscenio e il “paradiso”. L’interno è decorato con stucchi e fregi pittorici, mentre sul soffitto è affrescato un medaglione, opera di Luigi Vacca, raffigurante Minerva che incorona la Musica, la Poesia e la Pittura. Dopo un secolo di fitta attività artistica (nella cronologia degli eventi è annoverato anche il concerto di Pasquale Taraffo, che ha luogo il 9 ottobre del 1921), il teatro segue la parabola discendente d’una decadenza che culminerà nel 1952 con la sua chiusura. Radicalmente restaurato, torna ad essere attivo a partire dal principio degli anni ’90. |
Teatro Maffei di Torino Viene costruito nel 1910, al civico 5 di via Principe Tommaso, sulle ceneri del più antico Concerto Eden. Sarà poi distrutto dalla seconda Guerra Mondiale. Assai poche sono le testimonianze che oggi abbiamo su questa struttura un tempo fiorente. Tra gli artisti coinvolti, come è possibile leggere da una locandina degli anni ’20, i cantanti Charles de Caruso, Lina Blanche e Jone de Charmettés, oltre ad acrobati, fantasisti e danzatori. Direttore d’orchestra attivo al “Maffei” è Osvaldo Brunetti, classe 1863, pianista e compositore nativo della provincia di Parma, allievo di Giusto Dacci. Brunetti: dal 1886 al 1912 svolge attività di direttore d’orchestra, di banda e organista a Barge (Cuneo), per poi passare appunto al “Maffei” di Torino. |
Hotel Terme di Salsomaggiore È una delle strutture alberghiere più fastose ed artisticamente importanti d’Europa. Datato 1901, con l’inaugurazione del Grand Hotel des Thermes il Liberty fa il suo ingresso trionfale in Italia. Il progetto viene realizzato dall’architetto milanese Luigi Broggi, impegnato negli stessi anni alla costruzione del palazzo della Nuova Borsa a Milano. La struttura comprende trecento stanze disposte su quattro piani. Per le decorazioni vengono coinvolti Gottardo Valentini ed Alessandro Mazzucotelli, pionieri della decorazione floreale. L’edificio in stile Liberty-Déco (oggi conosciuto come Palazzo dei Congressi) può contare su alcune saloni storici, magnificamente affrescati: il Salone “Moresco” particolarmente adibito a concerti e addirittura all’allestimento di opere liriche, il salone “Cariatidi”, il “Pompadour” e la “Taverna Rossa”. |
Scottish Rite Hall di San Francisco Costruito nel 1909 l’edificio, concepito quale tempio massonico di Rito Scozzese, propone un mix di stile neoclassico ed architettura Beaux Arts. La struttura consta della Loggia, della sala da ballo, della Fondazione delle Arti Polacche e, oggi, di un cinema. Uno spazio in grado di ospitare fino a 2000 persone. |
Gallo Opera House Il teatro viene costruito nel 1927 dall’architetto Eugene De Rosa, su commissione di Fortunato Gallo (classe 1878, nativo della provincia foggiana), impresario della compagnia lirica del San Carlo dal 1913 alla fine degli anni ’50. Il teatro, 1200 posti, è concepito per accogliere anche produzioni esterne al cartellone della compagnia d’opera stabile. Particolarmente ricca la decorazione degli interni, in stile rinascimentale. La compagnia di Fortunato Gallo inaugura il teatro nel novembre del 1927 con La Boheme. Da subito la struttura ospita anche spettacoli di teatro di prosa: viene messa in scena l’Elettra di Sofocle, con Antoinette Perry. La grande depressione del 1929 segna inesorabilmente il teatro, che viene chiuso nel 1933, per essere riciclato come nightclub e ristorante. Nel 1942 la CBS lo acquista, utilizzandolo come studio radiofonico. Nel 1977 una ulteriore metamorfosi tramuta il teatro nella celeberrima discoteca “Studio 54”. Dal 1998 lo spazio torna all’originale funzione teatrale grazie ad un restauro che ha riportato il luogo ai fasti originali. |
- Giorgio De Martino (2011) con la preziosa collaborazione di Franco Ghisalberti ed Enrico De Filippi, translation by Silvia Minas |
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Giorgio
De Martino,
nato a Genova nel 1964, è musicista, giornalista, scrittore. Collabora
come critico musicale presso “Il Secolo XIX” da oltre vent’anni.
Dal 1993 collabora stabilmente con il Teatro Carlo Felice, Fondazione
per conto della quale ha tenuto ad oggi oltre mille incontri e
conferenze sull’Opera presso associazioni, università ed istituti
didattici. Ha
pubblicato “Giuseppe Gaccetta e il segreto di Paganini” (De Ferrari,
2001), “Cantanti, vil razza dannata” (Zecchini, 2002), “Attività
lirica e musicale a Lavagna e nel Tigullio” (De Ferrari, 2003),
“L’utopia possibile” (Zecchini, 2004), “All’Opera!” (Frilli,
2007), “Notte illuminata” (Almud, 2010), “Andrea Bocelli live in
Central Park” (2011). Nel
febbraio 2010 ha realizzato il volume “Chi è di scena” per conto
della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova. Ha
pubblicato inoltre i volumi di narrativa “Il suono della farfalla” (Microart’s,
1990), “Incinto” (De Ferrari, 1999), “Notturno a Genova” (De
Ferrari, 2002), “Acconti Brevi” (Eumeswil, 2008), “Racconti dal
finestrino” (Liberodiscrivere Editore, 2010). Nel
2001 ha fondato “Il Cantiere Musicale”, rivista del conservatorio di
musica N. Paganini di Genova. Ha realizzato la biografia promozionale
ufficiale del tenore Andrea Bocelli.
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