Pasquale Taraffo e la sua “harp guitar” alla conquista del mondo

La personalità, il contesto, i successi internazionali, il declino: 
storia di un grande chitarrista dimenticato

Capitolo 5:
by Giorgio De Martino
translation by Silvia Minas
edited by Gregg Miner

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Sul Re Vittorio verso l’America del Sud, 1925”. L’album di famiglia ritrae un uomo piccolo, con la corporatura d’un ragazzino contrapposta ai segni del tempo che rendono drammaticamente espressivi i tratti del viso (tratti in sé, paradossalmente, quasi puerili). Ha trentotto anni, porta il cappello che copre un’estesa stempiatura, ha l’aria di uno che sorride solo quando strettamente necessario. In bella mostra, un salvagente col nome del piroscafo, e sotto – distanziata da due stelle – la città di provenienza, Genova.

Da Genova (dalla sua Genova), come decine di migliaia di emigranti, questo piccolo uomo taciturno è partito, alla volta di Buenos Aires, senza una raccomandazione, senza un indirizzo. Si chiama Pasquale Taraffo, è il “Paganini della chitarra” ma non si direbbe. Cerca fortuna oltreoceano.

A differenza del suo concittadino violinista, Taraffo la musica, quella scritta, mica la conosce. Ha tentato più volte, ci hanno provato i suoi amici e colleghi a fargliela apprendere, dal compositore Attilio Margutti al mandolinista Nino Catania. Nulla da fare, la carta pentagrammata non è per lui. Taraffo ascolta, e la musica passa direttamente dalla mente armonica alle mani, alle corde della sua chitarra. Può essere una Polka, ma anche il Coro dalla “Sonnambula”: lui introietta e poi reinventa, non ripropone pedissequamente ma concrea, attraverso licenze armoniche, attraverso soluzioni d’uso, per poi restituire magari un’intera orchestra nelle dieci dita. E quando compone brani originali, se li scrive nella memoria, poi li esegue di fronte ad un amico musicista, uno che sia in grado di trasformarli in spartiti per chitarra a sei corde.

Sangue genovese, un metro e cinquantaquattro, meridionale del nord, scomodissimo nel masticare le lingue (italiano compreso), quest’uomo tutto d’un pezzo, diffidente per natura e pervicacemente riconoscente con chi l’aiuta (chiamerà i propri figli – ed anche due tra le sue più note composizioni – col nome dei suoi benefattori), quest’uomo che si esprime in dialetto anche all’estero, parla viceversa la lingua del mondo quando è abbarbicato sulla propria chitarra a quattordici corde, “inventata da lui medesimo” (ma non è vero, è un’enfasi veniale ad uso delle Americhe) e piazzata su di un ingegnoso piedistallo lievemente basculante. Nella fotografia la sua figura emana una singolare rude signorilità, che ben si appaia all’impiantito logoro del piroscafo a due alberi “Re Vittorio”: stazza minuta (ancor più pensando alla rotta) immortalata in quel 1925, a tre anni dalla sua definitiva demolizione.

Grottesco e poetico insieme, il destino di Pasquale Taraffo, genio selvatico, genio raffinato, cresciuto nell’anomalia. Senza strumenti culturali regolamentati, senza una scuola se non quella familiare assorbita dal padre Giuseppe (di mestiere fabbro, ma con la passione per la chitarra), prima enfant prodige che riempie i locali pubblici della città di fronte a tavolini di marmo ed alla platea degli amici di umili professioni, poi professionista militante della chitarra, poi fenomeno internazionale (che a Barcellona, ad esempio, riempie il medesimo locale per quaranta serate consecutive), poi stella del gran varietà, vedette che sbalordisce il mondo (anche quello paludato della musica colta).

Pasquale Taraffo attraverserà l’oceano più volte, per suonare sia nel sud che nel nord dell’America. Lo farà con l’amaro in bocca congenito all’emigrante, nonostante i trionfi, gli incontri importanti, le recensioni esaltanti, perché una moglie e due figli lo attendono a casa, ed è qui che vorrebbe essere sempre.

Il suo funambolismo d’interprete virtuoso sulla scena ha un contrappasso non solo nell’aspetto ma anche nel carattere. Ispido nei rapporti ed assai poco diplomatico. Dunque perdente, quando si tratta di negoziare gli ingaggi, di saper mediare, di riuscire o meno a far soldi.

Oltrepassato il 1929, solo in parte in fortuita coincidenza con la Grande Depressione, la vita di Pasquale Taraffo lentamente reclinerà. Otto anni d’una lenta ma inesorabile parabola discendente. Dopo aver condiviso provvisoriamente le stanze del successo e probabilmente il profumo dei soldi, l’artista sembra non reggerne il peso e fors’anche i compromessi. Da quelle stanze ne uscirà presto, per tornare sulle navi. Non solo come concertista in transito bensì come musicista stanziale, attrazione di bordo, membro dell’orchestra guidata dall’argentino Edoardo Bianco, insieme al cantante concittadino Mario Cappello. Trascorrerà gli ultimi anni di vita di frequente lontano da casa, sempre più stanco e verosimilmente più conscio di quanto il proprio portentoso talento sia stato dilapidato. Morirà nel 1937 a Buenos Aires, senza aver fatto davvero fortuna, senza aver gettato basi sufficientemente solide per essere ricordato. La sua chitarra tornerà come una bara vuota, perché la sua salma non conterà su un biglietto di ritorno. E si perderà in Argentina.


Pasquale Taraffo non studia. “O Rêua” (epiteto risultante da una fascinazione d’ordine quasi circense, per una tecnica digitale che esteriormente, nel movimento della mano destra sulle corde, ricorda quello circolare della ruota) quando è all’estero chissà, ma quando è nella sua città, testimonianze raccontano come non concepisca una pratica chitarristica intesa come esercizio. La sua arte innata, di portata mozartiana, fa sì che pare non riesca a comprendere il motivo per cui debba suonare “da solo”. Suona volentieri, ma se ha gente di fronte che lo ascolta, che sia in teatro o in un locale pubblico. Dunque dorme fino a mezzogiorno, in ossequio al ritmo biologico d’artista, per poi suonare prima in un matinée poi in uno spettacolo serale, sempre imbracciando la sua chitarra a quattordici corde realizzata dall’amico liutaio Settimio Gazzo.

Nonostante questa dimensione esistenziale routiniera, di artigianato concertistico, Pasquale Taraffo ha avuto il coraggio e l’ingegno per uscire dall’orizzonte della provincia. Prima in Italia, poi in Europa (a poco più di vent’anni viene acclamato in Spagna, dove vene definito «El Dios de la Guitarra»), poi nelle Americhe (a partire da quel tragitto sul “Re Vittorio”), si è fatto conoscere ed apprezzare al punto da assurgere a rivale, e in un certo senso a contraltare, di Andrés Segovia. Quest’ultimo, più giovane di cinque anni, essendo nato nel 1893, benestante, dalla Spagna aveva conquistato gli Stati Uniti, grazie ad una tournée trionfale nel 1928, rilanciando la chitarra classica presto a livello planetario.

Sono paralleli che, ad una lettura superficiale del personaggio Taraffo, fanno fatica a convincere. Eppure il piccolo uomo taciturno che sapeva mettere 120 professori d’orchestra e magari un coro dentro le corde d’una chitarra, è figlio di una tradizione secolare e testimone di un’arte popolare in grado di non arrossire, per esempio di fronte alle trascrizioni bachiane di Segovia.

Il fenomeno Taraffo non nasce dal nulla. Ammesso che il suo sia un genio istintivo germinato “nella strada”, vale la pena ripensare e ricollocare oggi il concetto stesso di arte quotidiana, di arte popolare. La patria di Taraffo (e di Paganini) evidentemente offre, per secoli, l’humus tecnico ed interpretativo adatto a simili germogli. Paganini nasce come suonatore di strumento a pizzico, trasferendone poi alcune istruzioni tecniche nodali sulle quattro corde del violino. Ed anche Taraffo, a suo modo, assorbendo la stratificazione secolare propria di questa città marinara, può essere letto come epigono d’una storia che ci porta indietro nel tempo: al ‘500 di Simone Molinaro ed ancora più indietro, alla Genova medievale.

Taraffo compone musica ballabile, ha necessità di intrattenere. Le sue pagine hanno una priorità d’uso, hanno la forza, la concretezza del prodotto di consumo: Marce, Polche, Mazurche. E poi, l’Opera. Già, perché la lirica è (era) arte sommamente popolare, e gli stessi operai che frequentavano i locali di ritrovo ed i molti teatri di gran varietà, plaudendo al “numero” di Taraffo, conoscevano a memoria opere intere, e tifavano per la voce di Beniamino Gigli piuttosto che per quella di Tito Schipa o di Giacomo Lauri Volpi. Il melodramma ottocentesco in Italia è esperienza fortissimamente popolare. Laddove, oltralpe, si sviluppa l’era del grande romanzo (per un pubblico che, grazie anche ai precetti della chiesa evangelica, deve saper leggere, dai sacri testi in giù), nella penisola patria di Verdi viceversa fiorisce il melodramma, anche in ragione d’una alfabetizzazione scoraggiata (quando non addirittura osteggiata) dal cattolicesimo.

Nell’affiancare l’Intermezzo di Cavalleria Rusticana o il Coro della Sonnambula ad un Tango o ad una Serenata, Pasquale Taraffo ci dota oggi d’una lezione salutare, riposizionando il melodramma nell’alveo originario di una tradizione popolare ed accessibile. Segovia trascrive Bach, Taraffo trascrive Bizet, Bellini, Mascagni… Segovia, forte dei suoi studi violoncellistici pregressi, ha un approccio colto e molto rispettoso della fonte, mentre Taraffo riarmonizza, aggiunge farina del suo sacco, filtra il brano attraverso l’emozione, media attraverso una spiccata sensitività, per poi riconsegnarlo quale specchio della propria percezione, aggirando il passaggio su carta pentagrammata, eludendo pregi e difetti di un’analisi sulla notazione.

La storia della musica ci racconta un Segovia la cui autorità sugli altri chitarristi è schiacciante, almeno fino alla fine degli anni ’50. Nella figura di Segovia si identifica colui che, primo ed unico a suo tempo, ha cercato di restituire allo strumento quelle velleità solistiche cedute a partire dal primo Ottocento. Ma basta ricordare la tipologia dello strumento di Taraffo, “truccato” per rinforzare i bassi ed ampliarne la sonorità in funzione delle grandi platee… Basta aprire un giornale statunitense della fine degli anni ’20, per mettere in discussione l’assioma. E verificare come il paragone Segovia-Taraffo non sia un’illazione campanilistica. Sul quotidiano newyorkese “Il Progresso Italo-Americano”, il 25 dicembre 1928, nell’ambito della recensione del concerto (di cui parleremo più avanti) tenuto dal chitarrista genovese al teatro Gallo di New York, si legge «Taraffo è meraviglioso nei suoi pizzicati, nei suoi trilli, nei suoi arpeggi come nel canto spiegato, come nei robusti bassi. Spesso si ha la illusione precisa che sian più strumenti a suonare insieme. Segovia è, forse, più levigato, più elegante. Taraffo è più robusto, più espressivo, più efficace». In quei giorni, nella programmazione concertistica della Grande Mela, tra gli altri  figurava un adolescente Yehudi Menuhin, violinista solista in due concerti con la Philarmonic Symphony Society alla Carnegie Hall, ed anche Andrés Segovia, giunto per tenere un recital alla Town Hall (dove Taraffo suonerà due settimane dopo, dedicando un brano di propria composizione al presidente Herbert Hoover).

Ignoriamo volutamente narrazioni leggendarie, seppure plausibili, che parlano di incontri/scontri de visu fra Segovia e Taraffo, che sia nel corso d’una tournée di quest’ultimo in Spagna, oppure in America, o viceversa in una fugace apparizione genovese dell’artista iberico. Ma un raffronto è lecito. Anche se l’uno è un mito “istituzionalizzato” della chitarra, l’altro, ai più (ed a torto), un nome quasi sconosciuto.

A controprova, citiamo “The new International Year Book – A Compendium Of The World’s Progress For The Year 1928”. Si tratta del prestigioso annuario a cura di Herbert Treadwell Wade, edito da “Dodd, Mead and Company”. Un tomo voluminoso – oltre 800 pagine – che fotografa lo stato dell’arte delle discipline sia scientifiche che umanistiche nell’arco del 1928. Nella sezione dedicata alla musica, ed in particolare agli artisti, a pagina 477-478, il testo fa riferimento prima al debutto americano del pianista Vladimir Horowitz (solista nel Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Čajkovskij, sotto la bacchetta di Sir Thomas Beecham), poi a due eclatanti enfant prodige del violino che hanno destato stupore a livello internazionale, l’adolescente Yehudi Menuhin e Ruggiero Ricci, che all’epoca aveva otto anni. Introduce infine una «inusuale attenzione» prestata nel corso dell’anno ad uno strumento che in precedenza non frequentava i palcoscenici delle sale da concerto, la chitarra. Un’attenzione dovuta alle importanti esecuzioni di due artisti. Uno dei quali è Andrés Segovia, l’altro, Pasquale Taraffo: «ancora più sorprendente fu l’esibizione dell’italiano Pasquale Taraffo (New York, 23 dicembre) che suonò uno strumento sensibilmente migliorato grazie al proprio ingegno. Infatti aumentando le dimensioni della chitarra ordinaria ed aggiungendo diverse corde, ha ottenuto non solo una gamma di suoni più ampia, in particolare nel registro inferiore, ma anche un tono più dolce e maggior volume. Uno strumento che (Taraffo) ha gestito con grande virtuosismo».

Così recita, il testo originale: «Unusual attention was attracted by the remarkable performances of two artists who introduce an instrument entirely unknown in serious concerts, the guitar. Andrés Segovia, a Spaniard, scored an instantaneous success at his début in New York (January 8) by his masterly rendition not only of national folk songs and dances but also by his arrangements of familiar pieces of the classic masters. His success in other cities was equally emphatic. Still more surprising was the exhibition given by the Italian Pasquale Taraffo (New York, December 23), who played an instrument greatly improved by his ingenuity. By increasing the dimensions of the ordinary guitar and adding several strings, he obtained not only a wider range, especially in the lower register, but also a mellower tone and more volume. This instrument he handled with real virtuosity».


La patria di Pasquale Taraffo raramente è generosa coi propri figli illustri. Li ricorda in modo tutto suo, secondo percorsi atipici e talvolta inspiegabili. È la stessa città, vale ricordarlo, che ha disinvoltamente distrutto – nei primi anni ’70 – la casa natale di Niccolò Paganini. Lungo il secolo scorso lentamente il nome di “O Rêua” ha appannato la sua vis evocativa anche nella nativa Genova, fino quasi a scomparire. Eppure, ancora a metà degli anni ’50 sulla stampa cittadina si leggono frasi che tornano ai paragoni di cui sopra: «gli spagnoli hanno fatto di Pasquale Taraffo un loro figlio prediletto (…), il nome del chitarrista genovese vien pronunciato con reverenza pari a quella di Tarrega e di Segovia». Poi però, per quasi mezzo secolo, rare sono le occasioni in cui Genova si è ricordata di Taraffo. Per il principio di una renaissance bisognerà attendere la seconda metà degli anni ’90, con l’avvio di una disamina strutturata (e della divulgazione) dell’arte taraffiana, dai dischi alla documentazione cartacea, ad opera di studiosi e musicisti quali Franco Ghisalberti, Enrico De Filippi, Beppe Gambetta, Fabrizio Giudice.

L’8 luglio 1954 la sua chitarra a quattordici corde viene consegnata ufficialmente al sindaco di Genova, dalla figlia dell’artista. Sarà il conservatorio musicale cittadino ad accoglierla, luogo dove tuttora è custodita. Seguono, ad anni di distanza l’uno dall’altro, sparuti omaggi celebrativi, fino ai già citati riconoscimenti dell’ultimo quindicennio.

Mentre, curiosamente, è perfino corposa una produzione poetica, d’area dialettale, dedicata a “o Rêua”. Il poeta Piero Bozzo (1910 – 1992) firma le strofe di una canzone genovese titolata «Quande sûnnava o Rêua» su musica di Natale Romano, dove evoca la «voxe de Zena» paragonando Taraffo a Paganini, rammaricandosi per il mancato ritorno in patria delle spoglie mortali dell’artista. Sette quartine (di più elaborato pregio poetico) vengono poi redatte al principio degli anni ’80 da Carlo Palladino (1910 – 1995), poeta per diletto ed ottimo musicista, primo chitarrista a ricoprire la cattedra di chitarra classica presso il conservatorio “N. Paganini” di Genova.

Altri letterati hanno versificato in onore di Taraffo, da un anonimo che evoca come “O gh’ha azzunto de corde ä seu chitara / pe sciortisene feua da Pontexello / e poėi montâ in scï bastimenti / e sunnâ Verdi e Rossini in ti teatri» ad un amatore di nome Angelo Ferrando, il quale in alcuni versi pubblicati su “Il Lavoro” immagina il musicista morente, mentre dà l’estremo saluto alla propria chitarra, rendendola ambasciatrice dell’addio alla patria lontana; da citare anche Antonio Firpo, il quale scrisse nel 1985 la poesia “Au grande Pasquale Taraffo re d’a chitara”.

Taraffo è un artista moderno. Caratterialmente certo non è un grande comunicatore, ma allo stato dei fatti risulta un brillante utilizzatore dei mezzi di comunicazione del tempo. È probabile sia il chitarrista italiano che abbia inciso più dischi, nella seconda metà degli anni ’20. Di produzione delle principali marche inglesi, tedesche ed americane, la discografia di Taraffo non sembra seguire una rigorosa progettualità di documentazione sonora, quanto piuttosto rispondere all’esigenza pratica di commercio, spesso da parte dello stesso musicista. Un uso dunque artigianale e pragmatico del mezzo, che si tramuta in fonte economica ed anche pubblicitaria. Decine sono i dischi a 78 giri incisi da Taraffo, alcuni dei quali ripropongono sotto marchi differenti la medesima esecuzione. Per una disamina precisa, anche dal punto di vista cronologico, non aiuta il fatto che l’artista, essendosi rifiutato di sostenere l’esame d’ammissione, non sia mai stato iscritto alla Società Italiana degli Autori ed Editori. Sono stati rintracciati suoi dischi siglati Homocord, Columbia, Odeon, Polydor… Un modo per entrare nelle case, per reiterare lo stupore ed amplificare la fama.

Non solo: Taraffo conosce anche la forza dello schermo, entra per un momento, con la sua chitarra a quattordici corde, nella scia luminosa della nuova arte del XX secolo. Non sappiamo quanti video abbia girato, conosciamo però una preziosissima clip dove l’artista genovese esegue “Stefania”, celebre brano popolare di sua composizione. Il set è a New York, la pellicola risale al 19 dicembre 1928 (meno di una settimana prima del suo trionfale concerto al teatro Gallo, di cui parleremo più avanti). Il  cortometraggio, della durata di pochi minuti, era presumibilmente proiettato nei cinema, come consuetudine al tempo, quale bonus prima o dopo una più corposa proposta filmica. Taraffo frequenta anche il mezzo radiofonico: abbiamo notizie di trasmissioni presso le emittenti argentine “Radio Cultura” e “Radio Fenix”, alle quali partecipa insieme al conterraneo Mario Cappello.


Still from 1928 film clip


Pietro & Pasquale Taraffo, with their "basculating" harp guitar stands

Forse anche grazie a questi mezzi tecnologici, Taraffo è in grado di agire sui gusti della massa, riesce a segnare il suo tempo, a creare una moda.

Con le esibizioni di “O Rêua”, con l’eco leggendaria dei suoi successi oltre oceano, con i suoi dischi che girano sui grammofoni, suonare la chitarra ad arpa diviene una pratica in voga, diventa una moda. A testimoniarlo, un picco di produzione che, solo in ambito genovese, supera presumibilmente il centinaio di pezzi, alcuni di liuteria, altri di talvolta eccentrico artigianato. Poi, con la morte di Taraffo, l’interesse per la chitarra ad arpa sembra pressoché totalmente estinguersi. Un oblio che cala celermente, sullo strumento e sul suo mentore, per quasi tre quarti di secolo. Dunque, fino a ieri.

Un artista moderno, dicevamo: moderno e coraggioso. Infatti Taraffo è tra i pochissimi chitarristi professionisti “a tempo pieno” di quegli anni, sicuramente l’unico della cerchia genovese. Suoi colleghi coevi, anche di rilievo, vivono la chitarra nell’ambito di una seconda occupazione: per una sicurezza economica, chi fa il cuoco di bordo, chi ha un esercizio commerciale, chi è artigiano, chi insegna. Taraffo è un concertista, ed è talmente assorbito dalla sua professione d’esecutore “militante”, che non arrotonda neppure attraverso l’attività didattica.

Artista moderno e ingegnoso: se l’utilizzo di un piedistallo, come già accennato, in sé non è una soluzione “esclusiva” di Pasquale Taraffo, un virtuale copyright glielo si deve per quanto concerne la separazione del sostegno dallo strumento (per facilitarne la trasportabilità), e soprattutto per l’invenzione di un piccolo ma geniale accessorio, che bypassa quelle restrizioni che l’utilizzo di un piedistallo comporta per la chitarra, in termini d’una più o meno possibile mobilità “espressiva” da parte dell’interprete. Si tratta di una barra di legno che rende la base del piedistallo basculante, in modo che l’artista possa non essere schiavo della immobilità che il basamento altrimenti causerebbe alla chitarra. Un’idea semplice, pratica, che produce – nell’oscillazione dell’oggetto intorno a un’asse – un segmento di rotazione all’intera struttura lignea e che la orienta più o meno trasversalmente, a seconda del posizionamento.


Ad applaudirlo c’erano tutti. L’antivigilia di Natale del 1928, in locandina, al teatro Gallo nella 54th Street di New York, svetta il nome di Pasquale Taraffo. Saranno le ultime festività serene, prima che il “martedì nero” dell’ottobre successivo getti nell’indigenza un’ampia porzione di popolazione, non solo statunitense. Ed anche il “Gallo Opera House” ne subirà le conseguenze, dismesso nel 1930, più volte riciclato tra prosa e musica, ed infine tramutato nella celebre discoteca “Studio 54”.

Torniamo alla platea di quella domenica 23 dicembre, in un teatro distante pochi isolati dal “Met”. Impressionante è la densità di personalità del mondo artistico legato alla musica colta che hanno varcato la soglia del “Gallo” e che siedono per applaudire Taraffo. Una parata di stelle che va dai cantanti Beniamino Gigli, Giacomo Lauri Volpi, Titta Ruffo, Lucrezia Bori, Frederick Jagel, ai direttori d’orchestra Tullio Serafin, Vincenzo Bellezza, Giuseppe Maria Bamboschek, da Giulio Setti, per quasi trent’anni direttore del coro del “Met”, al violinista Vasa Prihoda.

Un parterre de rois che resta incantato, come testimoniano le fotografie da alcuni di loro dedicate all’artista genovese, dopo il concerto. Ad esempio Prihoda lo definisce «grande chitarrista» e Lauri Volpi rincara definendo Taraffo come colui «che ha innalzato alla più squisita dignità di d’arte uno strumento così tipicamente italiano».

La stampa copre meticolosamente l’avvenimento, riservando al ben congegnato e ben promosso debutto del chitarrista genovese un vero e proprio trionfo mediatico. Nelle locandine dei concerti a venire leggeremo slogan quali “il celebre concertista di chitarra” oppure “world’s greatest guitarist”. Siamo di fronte all’apice della carriera di Pasquale Taraffo, all’approdo professionale più eclatante dell’artista genovese, che infatti fa il pieno di favorevolissime recensioni.

Il “New York Times”: «Con i suoi trilli eseguiti con la mano destra, le scale e gli arpeggi con la sinistra esaltati dai bassi pizzicati da grande virtuoso sulle otto corde aggiunte rispetto alle sei delle chitarre classiche, ha suonato la sua particolare chitarra ad arpa facendosi applaudire per la prima volta nell’America del Nord dal pubblico musicale entusiasta (…). L’umile musicista faceva i suoi inchini quasi nascosto dall’imponente mole dell’istrumento di sua invenzione, mezza arpa e mezza chitarra, che posto su di un alto piedestallo sembrava produrre il suono di tutta un’orchestra di mandolini retta dalla straordinaria musicalità dell’esecutore».

Il “New York Sun”: «Ha sfoggiato grandissima agilità di esecuzione restituendo brani che spaziavano da una serenata di Albeniz all’ouverture della “Norma” fino alla “Stars and Stripes” di Sousa. Pubblico entusiasta e applausi a non finire».

Sulla stessa linea, gli altri maggiori attori della scena mediatica del tempo, dall’“Herald Tribune” al “New York Evening Post” ed al “Morning Telegraph”.

Vale la pena soffermarsi su questo picco di attenzione da parte dei media newyorkesi, di cui Pasquale Taraffo è oggetto a cavallo tra 1928 e 1929. Una copertura mediatica che oggi farebbe invidia a qualunque star internazionale. Prima di approfondire i contenuti di alcune delle grandi testate sopra citate, ci concentriamo sull’articolo in lingua italiana, che in data 25 dicembre 1928, sulle pagine de “Il Progresso Italo-Americano”, riferisce sul concerto. Il recensore propone riflessioni interessanti, all’interno di un pezzo il cui contenuto esprime incontrovertibilmente come, con l’esibizione di Taraffo, sia “nata una stella”.

«Siamo andati, domenica, al Teatro Gallo con una certa diffidenza. Non conoscevamo Taraffo: e non ci lasciamo convincere aprioristicamente dalla “reclame” che procede ogni “lanciamento” di nuovi virtuosi nel gran mondo musicale e affaristico americano». Così leggiamo, al principio della recensione… Quasi una strategia letteraria, volta a valorizzare maggiormente il prosieguo: «Siamo usciti dal concerto del chitarrista genovese lietissimi di aver fatto la conoscenza di un veramente eccezionale artista». Dopo una serie di annotazioni sui tre strumenti a 14 corde che Taraffo ha portato dall’Italia, e su come il cambio climatico abbia implicato alcuni problemi pratici all’artista, parla d’un pubblico «subito incatenato dalla meravigliosa tecnica del concertista e dai sorprendenti effetti che egli traeva dalla sua chitarra. Sorprendenti perché il chitarrista con una sola mano deve provvedere al canto e all’accompagnamento della musica che suona. E molte volte anche ai non profani riesce difficile spiegarsi come con una mano il chitarrista eseguisca con tanta limpidezza e con tanta grazia espressiva un canto melodico arricchendolo di un accompagnamento ricco, colorito, armonicamente perfetto».

Il quotidiano newyorkese in lingua italiana procede poi con un parallelo Taraffo-Segovia, di cui già abbiamo relazionato. Dopodiché, ancora una nota sull’apprezzamento del pubblico («Il sucesso è stato caloroso, spontaneo. È piaciuta molto la parte consacrata alla musica classica») e le conclusioni: «Taraffo, già popolare in Italia e in Spagna, sarà presto popolarissimo in America. L’Italia musicale si è arricchita di un virtuoso di più: virtuoso di gran classe. Il suo primo concerto è stato una lieta rivelazione. E fra coloro che più calorosamente applaudivano abbiamo notato domenica molti illustri artisti, fra i quali Gigli, Lauri Volpi, De Luca, (…) Tullio Serafin, Giuseppe Maria Bamboschek, Giulio Setti, Titta Ruffo, (…)».

Il recensore si firma con la sigla “F”. Al tempo, sottoscrivere un pezzo attraverso un acronimo non rappresentava affatto un’indicazione di scarsa importanza dell’argomento trattato o di poca autorevolezza di colui che l’aveva redatto. Viceversa, era in molti casi un vezzo del recensore, che in tal modo quasi sottolineava la propria riconoscibilità ed attendibilità agli occhi del lettore. In questo caso la sigla sottintende la penna di Italo Falbo (1876 – 1946), direttore de “Il Progresso Italo-Americano”, una figura straordinariamente eclettica della cultura italiana del primo ‘900. Dopo gli studi presso l’Accademia di Santa Cecilia, Italo Falbo alternò l’attività di compositore, critico musicale e giornalista (fra l’altro fondò la rivista “Ariel” insieme a Luigi Pirandello), all’impegno politico (fu deputato del Parlamento italiano al principio degli anni ’20) ed alla passione scientifica (si laureò in medicina e scienze naturali).

Sulla recensione apparsa nelle pagine del “New York Times” del 24 dicembre, oltre alle note tecniche che abbiamo riportato, il recensore entra in modo dettagliato nel merito del programma: «Si è esibito in arie di danza argentine e musiche tipiche della tradizione del suo paese, l’Italia, tra cui uno dei motivi più applauditi è stato l’adattamento dell’ouverture della “Norma” di Bellini. Taraffo ha dato la stura ai suoi pezzi ad effetto sin dall’inizio con la “Serenata Capricciosa” scritta per lui da Margutti, seguita dalla “Fantasia” di Vinas ad imitazione della tecnica pianistica. Indi è passato a brani di musica classica di consolidato valore lirico come una Serenata di Albeniz, il famoso Minuetto di Boccherini, il “Momento Musicale” di Schubert, e i “Pizzicati Polka” di Delibes. È passato poi all’Ouverture dell’opera di Rossini “La Gazza Ladra”, un po’ caduta nel dimenticatoio, alle arie da “La Gheisha”, e la “Star and Stripes” di Sousa».

A pagina 11 dell’edizione del 24 dicembre 1928 del “The World”, il recensore parla di «virtuosismo non apparente» sullo strumento che viene fantasiosamente definito «banjo-guitar». Sottolinea inoltre come Taraffo «has developed a delicacy and balance in his performance upon this instrument».

Il “New York Evening Post”, il medesimo giorno, pubblica un pezzo (siglato E. B.) più “raccontato”. Il testo principia con un’immagine di grande fascino: il palcoscenico vuoto, la chitarra issata sul piedistallo, pronta per una sfida all’altezza esclusiva d’un grande virtuoso: «Alone guitar on a pedestal in the center of a large stage bears something of an air of impertinence, which perhaps only a great virtuoso could overcome. Pasquale Taraffo, in his guitar recital at the Gallo Theatre on Sunday Afternoon, fell short of this greatness, but played with admirable dexterity and ingenuity and good musicianship. He audience, which was of fair size, grew very enthusiastic over such ambitious numbers as the overture of “Norma” and a piano imitation of Vinas’s “Fantasia Originale” (…)».

Interessante, il rilievo proposto da “The New York Sun”, sempre nell’edizione della vigilia di Natale 1928, laddove parla della chitarra: «(Taraffo) ha utilizzato uno speciale strumento a quattordici corde inventato da lui stesso, che assomiglia ad una chitarra classica dotata di un braccio atto a reggere le corde supplementari. Lo strumento ricorda vagamente l’arpa-liuto creata verso la fine del diciottesimo secolo da Edward Light nell’intento di sostituire la chitarra». Estremamente positivo, il giudizio critico: «Taraffo ha sfoggiato grandissima agilità di esecuzione suonando brani che spaziavano da una Serenata di Albeniz all’Ouverture della “Norma” fino alla “Stars and Stripes” di Sousa. Pubblico entusiasta e applausi a non finire».

Infine, uno sguardo al “New York Herald Tribune”, che ci informa su uno dei molti bis proposti: «the guitarist was applauded with unusual warmth, and repeated his arrangement of the ouverture to “Norma” a number effectively illustrating his fleetness and deftness of fingers. Other encores also were provided». E sul cuore del concerto, il recensore (che si firma F.D.P.) propone con onestà il proprio interrogativo sulla capacità di sostenere, la chitarra, un intero concerto, rimarcando come Taraffo, sullo strumento a quattordici corde di sua invenzione, «he proved a past master, with notable digital skill, while in a tone providing nothing particularly unusual in quality. He obtained quite a little variety of timbre but whether the limitations of the instrument allow sufficient variety to avoid monotony throughout a complete recital is a question».


Più ancora dell’accoglienza dei giornali, stupisce la qualità della platea del teatro Gallo. Ai giorni nostri una sequenza di ospiti di simile respiro sarebbe probabilmente impossibile da inanellare, neppure in occasione d’un evento in mondovisione. Ma il gotha musicale, alla fine degli anni ’20, ruota di frequente intorno alla Grande Mela. E molti tra gli italiani che hanno fatto la storia dell’interpretazione, cantano o suonano o dirigono a New York.

Partiamo dalle voci: il tenore Benimino Gigli ha all’epoca trentotto anni, e da otto calca il palcoscenico del “Metropolitan” e risiede stabilmente a New York. Il suo timbro è tra i più belli di sempre, la sua fama è già consolidata, anche se è solo a partire dagli anni ’30 che esploderà il successo planetario, grazie anche alla ricca discografia ed anche alla sua attività di cantante/attore, in una ventina di pellicole.

Un’altra perla dell’olimpo tenorile siede fianco a fianco, è Giacomo Lauri Volpi, ha trentasei anni ed è anch’egli una stella del “Met”. Due anni prima ha trionfato interpretando la prima esecuzione americana della “Turandot” di Puccini. Dopo un principio di carriera come tenore di grazia, è su consiglio di Pietro Mascagni (che lo predilige come “Turiddu” nella sua “Cavalleria Rusticana”) che inizia a frequentare un repertorio vocalmente spinto, da “Manon Lescaut” a “Il Trovatore”.

Superati da poco i cinquant’anni, in platea siede il più grande baritono di tutti i tempi, Titta Ruffo. È già una leggenda vivente. La sua interpretazione di “Rigoletto” è universalmente considerata ineguagliabile. Ha preferito lasciare l’Italia anche perché convinto antifascista (fra l’altro, cognato del celebre deputato Giacomo Matteotti, assassinato dal regime nel 1924). Titta Ruffo ascolta Taraffo in compagnia del suo collega Giuseppe De Luca, altro superbo baritono con trent’anni di carriera alle spalle. Per comprenderne la portata dell’artista, basti ricordare che è lui ad aver plasmato due personaggi chiave della produzione pucciniana: primo “Sharpless” al debutto di “Madama Butterfly” alla Scala di Milano nel 1904, primo “Gianni Schicchi” nell’opera omonima, la cui prima assoluta avviene proprio al “Met”, nel 1918.

Ad applaudire Taraffo, a stupirsi per la sua “harp guitar” c’è anche il soprano Lucrezia Bori, spagnola di nascita ma italiana per studi ed inizio di carriera. Accanto a Caruso sui palcoscenici degli anni ’10, prima interprete italiana (nel ruolo di Octavian”) nel Rosenkavalier di Strauss, la Bori a New York (dove morirà nel 1960) è di casa fin dal 1912, quando debutta trionfalmente nella “Manon Lescaut” di Puccini.

Le siede vicino un collega americano, il tenore Frederick Jagel. Nato a Brooklyn, i primi passi li ha mossi in Italia, facendosi chiamare Federico Jaghelli. Al tempo del concerto di Taraffo è trentenne: sono giusto trascorsi due anni da quando ha inaugurato la propria carriera al Metropolitan come “Radames” in “Aida”. Seguiranno ventitré anni di sodalizio col teatro newyorkese, nei quali Jagel interpreterà trentaquattro ruoli, per un totale di quasi 250 recite.

Quanto ai direttori d’orchestra presenti, svetta il nome di Tullio Serafin. Classe 1878, è la bacchetta che in oltre sessant’anni di carriera è riuscita a dirigere da Enrico Caruso a Luciano Pavarotti. Serafin, pupillo di Toscanini, ha guidato le prime rappresentazioni di opere di Benjamin Britten, Alban Berg, Paul Dukas. È lui ad aver scoperto Maria Callas, anche se più volte ha affermato che i più grandi fuoriclasse del canto restavano Rosa Ponselle, Enrico Caruso e Titta Ruffo (che in quell’antivigilia di Natale 1928 gli siede accanto).

Uno strepitoso compagno di lavoro di Serafin, anch’egli in sala, è Vincenzo Bellezza. Di dieci anni più giovane, è reduce dalla direzione al “Colón” di Buenos Aires. A partire dal 1926 sta mantenendo un rapporto privilegiato con il “Covent Garden”, teatro dove dirige tra l’altro la recita di addio della mitica Nellie Melba ne “La Bohème”. La dimensione della sua fama nel secondo ‘900 forse non renderà merito alla grandezza del personaggio, penalizzato da una scarsa attività discografica.

Al concerto di Taraffo c’è anche Giuseppe Maria Bamboschek, artista straordinariamente eclettico che qualche anno prima aveva debuttato come direttore d’orchestra e pianista solista con la Berlin Philarmonic Orchestra. Tutti i più celebri cantanti dell’epoca d’oro (quella di Enrico Caruso, di Rosa Ponselle, di Giovanni Martinelli…) sono passati dalla sua bacchetta.

Di voci se ne intende anche Giulio Setti, uno degli “anziani”, anch’egli ad applaudire il chitarrista genovese. Classe 1869, quasi quarantenne si trasferisce negli Stati Uniti dove diventa maestro del coro del “Met”. Un posto di lavoro che manterrà per ventisette anni, prima di ritirarsi e di tornare in Italia.

È assai più lunga, la lista di personaggi importanti, musicisti e non, italiani e non, che applaudono Taraffo. Citiamo ancora un artista, presente in sala quel 23 dicembre. È il violinista ceco Vasa Prihoda, tra i più grandi interpreti paganiniani di tutti i tempi, artista che all’epoca ha ventotto anni (ed è già un divo). Artista controverso, il suo violinismo ha ammiratori entusiasti ed anche detrattori: così c’è chi lo acclama e chi gli preferisce il quasi coetaneo Jascha Heifetz. Dieci anni prima del concerto al “Gallo” Prihoda tenta la fortuna a Milano, nella speranza di sfondare in Italia come virtuoso del violino. Costretto, per vivere, a suonare al “Caffè Grand’Italia”, viene inteso casualmente da Arturo Toscanini, il quale lo aiuterà nel decollo concertistico. Attività che presto darà al violinista fama e ricchezza. Come già accennato, al termine del concerto al teatro Gallo, Prihoda saluterà di persona Pasquale Taraffo, donandogli un proprio ritratto con dedica, dove definirà il concittadino di Paganini un “grande chitarrista”.

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il tenore Giacomo Lauri Volpi

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il tenore Frederic Jagel


il violinista boemo Vasa Prihoda


Ben prima dei trionfi statunitensi, a onor del vero il nome di Taraffo era già stato incoronato dalla stampa latinoamericana. Il debutto a Buenos Aires nel 1925 accende l’entusiasmo di “El Plata”, dove leggiamo in data 5 novembre: «Es que Taraffo, a más de concertista estupendo, es un autor inspirado. Su música denota ilprofundo conocimiento en materia de composición, la que abarca todas las reglas mas complicadas de la tecnica». Lo stesso giorno “La Nación” scrive: «Un gran concertista, un musicista completo, un técnico de gran pericia, en una palabra, un mago de la guitarra».

Tornato vincente da quella prima tournée sudamericana, frutto d’una coraggiosa scommessa e della lunga traversata sul piroscafo Re Vittorio, Pasquale Taraffo tiene un concerto nella sua città, il 31 maggio 1926, al Politeama Genovese. Il quotidiano “Corriere Mercantile” ne dà notizia, relazionando sulla serata. Ed è così che vogliamo ricordare questo piccolo grande artista, geniale e sfortunato, ispido come la sua terra, generoso come la musica che suona, abbarbicato alla sua chitarra, mentre tiene un concerto finalmente a casa: «Pasquale Taraffo, sebbene il nome lasci supporre chissà quale lontana origine, è un nostro concittadino, genovese autentico, e figlio di autenticissima famiglia genovese. In casa sua sono tutti valenti chitarristi; ma egli ha fatto, si può dire, di questo istrumento la stessa ragione della sua esistenza; ed oggi ha raggiunto un tale grado di perfezione tecnica da consentirgli di percorrere trionfalmente tutti i teatri suscitando ovunque meraviglia e vivissimo entusiasmo. Ieri sera il Taraffo, reduce da una tournée nel sud America dove fu acclamato il Paganini della chitarra, ha dato un concerto al Politeama Genovese, occupando da solo l’intera serata e provocando una serie infinita di applausi e di acclamazioni da parte del pubblico affollatissimo che non si stancava di evocarlo alla ribalta ad ogni numero del programma, chiedendo dei bis. E Taraffo invece di replicare concedeva sempre nuovi pezzi: complessivamente ha eseguito una decina di suonate oltre al programma composto di dodici numeri scelti con criterio, di una ben assortita varietà: dalla serenata di Margutti alla Norma, dalla Cavalleria Rusticana, alla Sonnambula, dalla Carmen alla Gheisa ecc. In ogni esecuzione l’insuperabile chitarrista diede saggio non solo di una agilità veramente straordinaria che gli permette di superare qualunque difficoltà, ma pure sfoggiò una mirabile dote di interpretazione passando dal pianissimo ai “concertati”, dai pizzicati ai “glissès” e rendendo con ottimo effetto ogni minima sfumatura.

Il successo di Pasquale Taraffo fu pertanto veramente completo, quale meritava il suo virtuosismo che è il frutto di lungo e paziente studio e di un eccezionale temperamento musicale».


Proponiamo infine una panoramica su alcuni teatri dove la chitarra di Taraffo ha risuonato, dove il fuoriclasse delle quattordici corde è stato applaudito. Un percorso – certamente non esaustivo – che, come la rotta di tanti piroscafi del tempo, parte dalla “sua” Genova per approdare all’ombra della Statua della Libertà. Stupisce ancora una volta, se mettiamo in relazione gli scorci dei teatri citati, la loro capienza, e lo strumento di Pasquale Taraffo, come il chitarrista potesse sostenere simili tipologie di uditorio. Un elemento di ammirazione in più, la potenza del suono che doveva giocoforza possedere l’artista genovese, per potere farsi ascoltare ed applaudire in teatri di dimensione importante e, talvolta, di qualità acustica non ottimale.

Politeama Genovese di Genova

Edificato nel 1868 dall’architetto Nicolò Bruno, su commissione dei fratelli Giacomo e Giovanni Chiarella, il Politeama Genovese sorge nello spazio in precedenza coperto dal teatro Diurno (dove si tenevano spettacoli equestri e circensi), al quale si aggiunge un appezzamento donato dal Comune della città ligure. La struttura teneva circa 1000 posti ed era in stile neoclassico, di forma rotonda e con il tetto scoperto. Una copertura verrà poi realizzata grazie a successivi interventi a firma dell’architetto Bruno. Nel 1932 Mario Labò reinterpreta il teatro eliminandone le decorazioni. Nel 1942 un bombardamento distrugge il Politeama. Nel 1955 viene inaugurato il nuovo Politeama, progettato da Dante Datta. La struttura per molti decenni è stata di proprietà del teatro Stabile di Genova, per spettacoli di prosa. Dal 1994 il Politeama Genovese è gestito da una società di privati.

Teatro Civico di Tortona

Nel 1830 l'Amministrazione Comunale di Tortona affida al concittadino Pietro Pernigotti l'incarico di realizzare il progetto di un teatro, da erigere su una porzione dello spazio precedentemente coperto dal Convento della SS. Annunziata. Nonostante un’epidemia di colera rallenti, nel 1836, l’opera di costruzione, il teatro viene inaugurato il 2 maggio 1838 con la Norma di Bellini. La struttura è in stile neoclassico, la sala, delineata a ferro di cavallo (come di consueto, nell’800), contiene diciassette palchi su tre ordini, più i due di proscenio e il “paradiso”. L’interno è decorato con stucchi e fregi pittorici, mentre sul soffitto è affrescato un medaglione, opera di Luigi Vacca, raffigurante Minerva che incorona la Musica, la Poesia e la Pittura. Dopo un secolo di fitta attività artistica (nella cronologia degli eventi è annoverato anche il concerto di Pasquale Taraffo, che ha luogo il 9 ottobre del 1921), il teatro segue la parabola discendente d’una decadenza che culminerà nel 1952 con la sua chiusura. Radicalmente restaurato, torna ad essere attivo a partire dal principio degli anni ’90.

Teatro Maffei di Torino

Viene costruito nel 1910, al civico 5 di via Principe Tommaso, sulle ceneri del più antico Concerto Eden. Sarà poi distrutto dalla seconda Guerra Mondiale. Assai poche sono le testimonianze che oggi abbiamo su questa struttura un tempo fiorente. Tra gli artisti coinvolti, come è possibile leggere da una locandina degli anni ’20, i cantanti Charles de Caruso, Lina Blanche e Jone de Charmettés, oltre ad acrobati, fantasisti e danzatori. Direttore d’orchestra attivo al “Maffei” è Osvaldo Brunetti, classe 1863, pianista e compositore nativo della provincia di Parma, allievo di Giusto Dacci. Brunetti: dal 1886 al 1912 svolge attività di direttore d’orchestra, di banda e organista a Barge (Cuneo), per poi passare appunto al “Maffei” di Torino.

Politeama Rossetti di Trieste

Tra il 1877 ed il 1878 inizia la costruzione del teatro, per volontà di un gruppo di azionisti privati. La progettazione viene affidata all’architetto genovese Nicolò Bruno. Fin dall’inaugurazione, avvenuta il 27 aprile 1878 con il balletto Pietro Micca, il Rossetti viene apprezzato per la sua vasta capienza (ben cinquemila posti, ridotti nel ‘900 a millecinquecento), ma anche per la bellezza della sala e del foyer. Caratteristica della struttura, una cupola che poteva essere aperta nelle sere estive.  Nel 1880 viene ceduto al Comune di Trieste e principia una lunga serie di stagioni liriche, operette, ma anche spettacoli di rivista,  prosa, esibizioni di acrobati, lottatori, domatori, cavallerizzi. Nel nuovo secolo si alternano periodi di attività e chiusure per restauri, l’ultimo dei quali è datato 1999. Oggi il Rossetti è uno dei centri teatrali più attivi di Trieste.

Hotel Terme di Salsomaggiore

È una delle strutture alberghiere più fastose ed artisticamente importanti d’Europa. Datato 1901, con l’inaugurazione del Grand Hotel des Thermes il Liberty fa il suo ingresso trionfale in Italia. Il progetto viene realizzato dall’architetto milanese Luigi Broggi, impegnato negli stessi anni alla costruzione del palazzo della Nuova Borsa a Milano. La struttura comprende trecento stanze disposte su quattro piani. Per le decorazioni vengono coinvolti Gottardo Valentini ed Alessandro Mazzucotelli, pionieri della decorazione floreale. L’edificio in stile Liberty-Déco (oggi conosciuto come Palazzo dei Congressi) può contare su alcune saloni storici, magnificamente affrescati: il Salone “Moresco” particolarmente adibito a concerti e addirittura all’allestimento di opere liriche, il salone “Cariatidi”, il “Pompadour” e la “Taverna Rossa”.

Scottish Rite Hall di San Francisco

Costruito nel 1909 l’edificio, concepito quale tempio massonico di Rito Scozzese, propone un mix di stile neoclassico ed architettura Beaux Arts. La struttura consta della Loggia, della sala da ballo, della Fondazione delle Arti Polacche e, oggi, di un cinema. Uno spazio in grado di ospitare fino a 2000 persone.

Gallo Opera House

Il teatro viene costruito nel 1927 dall’architetto Eugene De Rosa, su commissione di Fortunato Gallo (classe 1878, nativo della provincia foggiana), impresario della compagnia lirica del San Carlo dal 1913 alla fine degli anni ’50. Il teatro, 1200 posti, è concepito per accogliere anche produzioni esterne al cartellone della compagnia d’opera stabile. Particolarmente ricca la decorazione degli interni, in stile rinascimentale. La compagnia di Fortunato Gallo inaugura il teatro nel novembre del 1927 con La Boheme. Da subito la struttura ospita anche spettacoli di teatro di prosa: viene messa in scena l’Elettra di Sofocle, con Antoinette Perry. La grande depressione del 1929 segna inesorabilmente il teatro, che viene chiuso nel 1933, per essere riciclato come nightclub e ristorante. Nel 1942 la CBS lo acquista, utilizzandolo come studio radiofonico. Nel 1977 una ulteriore metamorfosi tramuta il teatro nella celeberrima discoteca “Studio 54”. Dal 1998 lo spazio torna all’originale funzione teatrale grazie ad un restauro che ha riportato il luogo ai fasti originali.

Additional Teatro that Taraffo played:


- Giorgio De Martino (2011) con la preziosa collaborazione di Franco Ghisalberti ed Enrico De Filippi, translation by Silvia Minas

About the Author

Giorgio De Martino, nato a Genova nel 1964, è musicista, giornalista, scrittore. Collabora come critico musicale presso “Il Secolo XIX” da oltre vent’anni. Dal 1993 collabora stabilmente con il Teatro Carlo Felice, Fondazione per conto della quale ha tenuto ad oggi oltre mille incontri e conferenze sull’Opera presso associazioni, università ed istituti didattici.

Ha pubblicato “Giuseppe Gaccetta e il segreto di Paganini” (De Ferrari, 2001), “Cantanti, vil razza dannata” (Zecchini, 2002), “Attività lirica e musicale a Lavagna e nel Tigullio” (De Ferrari, 2003), “L’utopia possibile” (Zecchini, 2004), “All’Opera!” (Frilli, 2007), “Notte illuminata” (Almud, 2010), “Andrea Bocelli live in Central Park” (2011).

Nel febbraio 2010 ha realizzato il volume “Chi è di scena” per conto della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.

Ha pubblicato inoltre i volumi di narrativa “Il suono della farfalla” (Microart’s, 1990), “Incinto” (De Ferrari, 1999), “Notturno a Genova” (De Ferrari, 2002), “Acconti Brevi” (Eumeswil, 2008), “Racconti dal finestrino” (Liberodiscrivere Editore, 2010).

Nel 2001 ha fondato “Il Cantiere Musicale”, rivista del conservatorio di musica N. Paganini di Genova. Ha realizzato la biografia promozionale ufficiale del tenore Andrea Bocelli.

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